In questo caso gli approcci terapeutici di tipo razionalistico e/o farmacologici sono fallimentari: la ragione si infrange sullo scoglio della tirannia dell’assurdo che domina la mente del paziente. Chi si affida esclusivamente ai farmaci, non solo continua a rimanere preda della paura iniziale che lo aveva indotto a mettere in atto le compulsioni ma, non avendo piu’ la forza di agirle proprio a causa della sedazione indotta dal farmaco, puo’ addirittura sviluppare un forte senso d’impotenza appresa, una terribile condizione di preoccupazione in cui molte persone depresse sentono di essere intrappolate per sempre.
Difatti l’individuo diagnosticato come «ossessivo-compulsivo» che accetta l’idea che si tratti di una malattia cronica e incurabile (come il diabete), per gestire la quale dovrà assumere farmaci per tutta la vita, si rassegnerà inevitabilmente a essere biologicamente condannato e rinuncerà a combattere, peggiorando così il proprio problema (Nardone, 1994). Qualunque sia la condizione che sta vivendo, la persona che arriva a fare dell’etichetta diagnostica una parte integrante della propria identità («sono» un ansioso, depresso, compulsivo…) limiterà moltissimo le possibilità di superamento del disturbo rispetto a chi vive invece quella condizione come un periodo problematico che può essere però superato. L’effetto etichettamento, inducendo la persona a identificarsi con l’etichetta ricevuta, finisce così per rendere acuti o permanenti un insieme di sintomi che avrebbero potuto essere invece transitori: la diagnosi presentata come realtà realizza se stessa.
Il farmaco che dovrebbe aiutare e invece diventa uno dei principali meccanismi di peggioramento del disturbo è l’esempio emblematico di come l’ottica farmacologica orientata al solo «gestire» talvolta possa trasformarsi proprio in ciò che impedisce la cura.
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BIBLIOGRAFIA:
«Psicopillole. Per un uso etico e strategico dei farmaci», A. Caputo, R. Milanese, Ponte alle Grazie, 2017