«È facile aspettarsi che dall’obbligo della felicità scaturisca l’incapacità della sua piena realizzazione»
È opinione diffusa che dare alla luce un figlio sia tra le gioie piu’ grandi per una donna. Eppure c’è chi, proprio in quei mesi, si sente disperata.
«È la paura che il bambino s’ammali o è la paura di non avere denaro abbastanza per comperare tutto quello che serve al bambino o è la paura d’avere il latte troppo grasso o di avere il latte troppo liquido, […], è il senso di non poter disporre della propria vita, e l’affanno di doversi difendere dalla malattia e dalla morte perchè la salute e la vita di una donna è necessaria al suo bambino». (Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, «Mercurio», 1948)
Sebbene per la maggior parte delle donne il parto è vissuto positivamente, molte la riferiscono come un’esperienza traumatica. Tanto che anche in assenza di complicazioni fisiologiche, diversi studi rilevano la presenza dei sintomi del disturbo post-traumatico da stress correlati al dolore intenso, alla paura, alla perdita di controllo e alla percezione negativa sull’atteggiamento dei medici.
Eppure, a fronte di un approccio alla gravidanza altamente medicalizzato, raramente viene fatto un colloquio psicologico durante la gravidanza dove si indaghi una precedente storia psicologica o la presenza di disturbi psicologici o psichiatrici in atto.
Le donne più vulnerabili alle variazioni ormonali, con sindromi premestruali ricorrenti e che riportano disturbi di ansia in gravidanza, hanno maggiori probabilità di sviluppare disagi o veri e propri disturbi psicologici nel periodo perinatale. Se in gravidanza l’ormone progestinico, infatti, favorisce uno stato di rilassatezza fisica e psichica che prepara ad accogliere il bambino, nel post parto cala bruscamente a favore di uno stato di allerta che favorisce la sopravvivenza del neonato.
L’allattamento stesso, sebbene sia utilissimo per la creazione del legame madre-figlio e comporti notevoli benefici sul piano fisiologico, si accompagna talvolta a forte deprivazione del sonno, favorita anche dall’ossitocina, che induce uno stato d’allerta. La spossatezza materna che ne deriva può far peggiorare i sintomi di un disturbo psicologico o favorirne lo sviluppo.
Ma relegare il disagio materno a questioni meramente fisico-ormonali, se da una parte puo’ essere rassicurante, dall’altra è molto rischioso.
Troppo spesso viene minimizzato il disagio psichico non collegato a meri aspetti fisici e ormonali, e quindi nemmeno correttamente riconosciuto e trattato.
La nascita del primo figlio comporta una profonda riorganizzazione psichica, che deve approdare in una ridefinizione dell’identità. «La donna vive un disequilibrio rispetto a ciò che conosce di sé come individuo adulto«, scrive la psicologa e psicoterapeuta Monica Grigio in Nascere. Le parole per dirlo (Franco Angeli, 2011). «Come è stato per il periodo dell’adolescenza, in gravidanza la donna deve fare i conti con se stessa, deve mettere in crisi i suoi equilibri costruiti negli anni, il suo senso di sicurezza e di appartenenza, il suo ruolo sociale, lavorativo, quello di partner all’intemo della coppia e di figlia rispetto alla famiglia di origine, il rapporto con il suo corpo.
Con il parto poi si perde la fusione fisica con il bambino, e occorre integrare il bambino reale con quello immaginario, «costruito» durante la gravidanza. Non é un raro che un altro fattore di rischio sia la comparsa di problemi di salute del neonato o la nascita pretermine.
A livello psicologico, inoltre, personalità caratterizzate dalla tendenza al perfezionismo o il nutrire aspettative irrealistiche sull’essere madre (allattare a tutti i costi, non dormire mai e così via), possono essere più destabilizzate di altre dalla transizione alla maternità.
Ad aggravare la rivoluzione fisiologica e psicologica che investe la donna in gravidanza si può aggiungere una situazione sociale ostile e giudicante. Se l’isolamento è un fattore di rischio, quello che grava sulle donne è innanzitutto il paradosso della gioia per forza. Le neomamme si sentono ripetere spesso:
«Vedrai che quando stringerai il bambino tra le braccia passerà tutto»
oppure, in linea con il pregiudizio verso le persone depresse in generale, le si esorta a «darsi una mossa» e a «gioire per il figlio».
Ma una donna con depressione puerperale può non riuscire a prendere tra le braccia il proprio bimbo esattamente come una che si è fratturata i polsi in un incidente. Così alla sofferenza per i sentimenti di inadeguatezza o di ambivalenza nei confronti del bambino si aggiunge quella legata al senso di colpa e all’impossibilità di parlarne per via del tabù.
E non si devono sottovalutare le gravidanze successive alla prima. Anche se hanno già sperimentato la nascita di un figlio le donne possono riportare le stesse difficoltà le volte successive. Ogni gravidanza è a sé e ogni bambino è unico, con un suo carattere e un suo specifico modo di relazionarsi con la madre, che nel frattempo può avere un’età anche molto diversa rispetto alle gravidanze precedenti.
Per questo, occorre accompagnare i genitori in ogni gravidanza, trasmettendo loro un senso di fiducia. Che viene a mancare forse più oggi rispetto a qualche decennio fa per il fatto che i giovani genitori tendono a essere più soli di una volta, distanti dalle famiglie di origine.
Questo suggerisce la necessità di un approccio alla gravidanza che integri l’aspetto strettamente medico con quello psicologico per tutte le donne, monitorando gli stati d’animo ma anche la loro situazione socio-familiare.
La psicoterapia non solo può servire a risolvere o prevenire certi disturbi, ma puo’ sostituire efficacemente anche l’assunzione di psicofarmaci nei casi di diagnosi pregresse.
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