WORK ADDICTION ossessionati dal lavoro

«Noi viviamo nell’epoca in cui la gente è così laboriosa da diventare stupida» Oscar Wilde

Vi sono persone che hanno bisogno di lavorare altri­menti stanno male. Non lavorano per vivere, vivono per lavorare. Diventano schiave e arrivano a privarsi quasi completamente del loro tempo libero. Lavorare in maniera eccessiva per un tempo prolunga­to anche quando non se ne ha bisogno, solo per appagare una sensazione interna, può essere indice di dipendenza; la workaholism o work addiction.

«Il lavoro nobilita l’uo­mo». Da qui parte l’autoinganno. Cosi’ il workaholic crede di trovare il senso dell’esistenza nella propria attività o nei suoi frutti.  Si dedica anima e corpo al lavoro trascurando molto di quello che gli sta attorno e si autoinganna ritenendo di fare il «giusto necessario». Prima o poi, se non si ravvede, è destinato a bruciarsi. Diventa un fantasma poiché sente di essere vivo solo nell’ambiente in cui muore.

Tra i work addict c’è chi vuole produrre un’enorme mole di lavoro e chi, invece, vuole solo essere il tipo di persone che vogliono svolgere un’enorme mole di lavoro, il che non è proprio la stessa cosa. Essere davvero motivati è molto diverso da dover trovare la forza di volontà per esserlo!

A tal proposito, Spence e Robbins (1992) distinguono due tipi di workaholic:

Entusiastici: hanno un elevato coinvolgimento lavorativo, sono spinti da una compulsione interna che trova gran piacere e contenimento nel lavoro. Essi sono soddisfatti, innamorati della carriera in cui credono e che considerano la loro ragione di vita. Quindi, l’equazione «lavoro = felicità», a cui di solito si associa la ricchezza e la notorietà, diventa una premessa errata che attraverso una logica stringente porta a conclusioni errate.

Non-entusiastici: anche il non-enthusiastic workaholic trascorre un nu­mero esagerato di ore al lavoro. Costui, a differenza del primo tipo però, non riesce a trarre piacere da quello che fa. È come se provasse sentimenti contrastanti e ambivalenti, ama e contemporaneamente odia il proprio lavoro. Il non-enthusiastic workaholic non raggiunge l’obiettivo, per cui fierezza e certezze sono sostituiti dalla perenne speranza. Come Sisifo condannato al sudore e alla fatica eterna, chi lavora senza entusiasmo si sente costretto, vive la sua attività come una pena da sopportare.

I lavoratori di entrambe le tipologie sono ossessionati dal pensiero del lavoro e agiscono compulsivamente quan­do svolgono attività a esso legate. Diventando un tutt’uno con il proprio lavoro fino a sacrificare affetti, relazioni e se stessi.

Il che genera un altro autoinganno: «Sono bravo a fare il mio lavoro, lascio il resto agli altri!». Chi si dedica al lavoro trascurando tutto il resto può arrivare a maturare l’idea di non dover fare, o di essere incapace di fare, il resto (giocare con i figli, aiutare in casa, fare attività spor­tive, avere degli hobby, frequentare altre persone oltre i colleghi…), per questo procrastina e/o evita quelle atti­vità. Si crea un circolo vizioso che rende sempre più incapaci, e l’incapacità acquisita va a formare la credenza che il “non lavoro” non valga la pena farlo perché è una perdita di tempo, oppure perché è meglio che lo faccia chi è più capace. Con quest’autoinganno il lavoro diventa sempre più l’unico rifugio e l’attività privilegiata.

Nuove tecnologie e home working

Con le nuove tecnologie svanisce il luogo di lavoro che creava il distacco tra la sfera lavorativa e quella personale e familiare.

PC, smartphone e tablet perennemente connessi alla rete permettono a chiunque di poter lavorare sempre e dappertutto, di essere aggiornati e informati in tempo reale. Il giorno diventa la notte, la notte diventa il giorno, lavoro e tempo libero s’in­trecciano creando confusione.

La propria casa, luogo deputato al riposo e alle relazioni affettive, con l’e-work, diventa un surrogato dell’ufficio (Sonnentag, Fritz, 2010).

E il proprio ufficio diventa un luogo metafisico o virtuale ove rifugiarsi anche nei momenti in cui sarebbe meglio concedersi il meritato tempo libero per godersi e dedicarsi agli affetti o al riposo.

Lo “stacano­vista” avendo accesso al lavoro h 24, può mettere a tacere i sensi di colpa e lì per lì ha l’im­pressione di star meglio (Schieman, 2015). 

Ma lavorare tanto abusando delle nuove tecnologie, oltre a creare una forma di dipendenza dai mezzi tecnologici che si adoperano, a lungo termine riduce la performance sia dal punto di vista qualitativo sia da quello quantitativo. Vari studi mostrano che l’over-load work affatichi la mente provocando il calo dell’attenzione e della qualità lavorativa (Gosetti, 2012; Gallino, 2011), in più sembra creare stress e burnout. Si attiva un circolo vizioso: tentando di fare di più, di andare oltre l’orario di lavoro si costruiscono problemi fisici e professionali.

Paradossalmente, l’uso della tecnologia che avrebbe dovuto rendere più comoda la vita in realtà ha reso più comodo faticare! 

PSICO SOLUZIONI

Premessa: un lavoro sano dipende dallo svolgimento di altre attività che non hanno niente a che vedere con il lavoro. Le attività alternative a quelle orientate alla prestazione svolgono un ruolo compensativo fon­damentale rispetto all’affaticamento fisico e allo stress mentale provocati dal lavoro. Inoltre, dedicare più tempo all’evasione, è l’unica cosa che consente, nel momento in cui ci si occupa nuovamente di lavoro, di poter fare la differenza.

Gestire l’irrefre­nabile bisogno di fare, concedendosi il lusso di prender­si del tempo, imparando ad andar piano, al fine di valutare adeguatamente più prospettive e magari godendosi anche la vita, quindi, puo’ essere un’ottima soluzione.

Fare meno per fare piu’ e meglio rappresenta l’obiettivo di una buona terapia.

Nella vita, come nel lavoro, è il voler andare veloci che finisce per rallentare. Come affermava Napoleone Bonaparte, «Vado piano perché ho fretta».

«Lo scopo del lavoro è quello di guadagnarsi il tempo libero» Aristotele

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