«Potremmo buttare dalla finestra metà dei farmaci moderni, se non fosse che gli uccelli potrebbero mangiarli» Dr. M.H. Fischer
Il professor Irving Kirsch, psicologo clinico e professore presso la Harvard Medical School, chiese alla FDA (Freedom of Information Act) di poter visionare tutti gli studi clinici sottoposti all’agenzia per l’approvazione degli antidepressivi più frequentemente prescritti negli usa (citalopram, fluoxetina, paroxetina, nefazodone, sertralina e venlafaxina). La FDA consegnò la documentazione di 47 studi, compresi quelli che non erano stati pubblicati perché avevano dato esito negativo («bias di pubblicazione») e che rappresentavano il 40% circa di tutti gli studi.
Nel 2002 Kirsch pubblicò i risultati della sua revisione. I risultati erano davvero sorprendenti:
solo il 18% del miglioramento clinico riscontrato nei pazienti era da attribuire al farmaco,
il rimanente 82% era dovuto all’effetto placebo, ossia all’aspettativa positiva dei pazienti di star ricevendo una cura per il loro malessere.
Questa differenza, inoltre, si riscontrava soltanto nei pazienti con una depressione molto severa, mentre non esisteva alcuna differenza tra placebo e farmaco nei casi di depressione lieve o moderata.
Il dato del 18% risulta ancora meno rilevante se invece di considerare solo la significatività statistica se ne considera anche la significatività clinica.
La significatività statistica, infatti, indica il tasso di probabilità che il risultato sia reale e non dovuto al caso, ma non ci dice quanto grande e importante sia l’effetto.
La significatività clinica, invece, indica quanto l’effetto riscontrato possa implicare una reale differenza nella vita dei pazienti.
Come spiega lo stesso Kirsch (2009), potremmo condurre uno studio su 500.000 persone che dimostri che sorridere allunga la vita (elevata significatività statistica), ma scoprire poi che tale allungamento è di soli 10 secondi (scarsissima significatività clinica). Allora, se analizziamo la significatività clinica emersa dalle analisi di Kirsch, scopriamo che era irrisoria, visto che la differenza media di miglioramento tra il gruppo con farmaco e quello con placebo era soltanto di 1,8 punti sulla scala Hamilton per la depressione (strumento normalmente utilizzato dalla FDA per la validazione dei farmaci per la depressione e viene compilata dai medici sulla base delle interviste e delle osservazioni dei pazienti).
Proprio per questo, il NICE (Istituto nazionale per la salute e l’eccellenza clinica della Gran Bretagna) ritiene che la differenza tra farmaco e placebo debba essere di almeno 3 punti per venire considerata clinicamente significativa.
A questo proposito va ricordato che lo studio di Kirsch riporta dati medi, per cui è certamente possibile che un SSRI, benché poco efficace nella maggioranza dei casi, sia invece molto efficace su determinanti pazienti, per esempio su depressi gravi. Uno studio successivo ha infatti dimostrato che l’efficacia dei farmaci antidepressivi aumenta se la depressione è molto grave (Fournier, 2010).
Ma come si spiega questa sia pur minima percentuale di differenza riscontrata tra farmaco e placebo?
Secondo Kirsch, può essere interpretata come «effetto placebo accresciuto», un effetto cioè legato alla consapevolezza dei soggetti di star assumendo il farmaco invece del placebo.
Gli studi clinici controllati prevedono il «doppio cieco», quindi né i soggetti né i loro medici sanno a quale dei due gruppi (sperimentale o controllo) i pazienti appartengano. Questo dovrebbe rendere lo studio il più possibile scevro da contaminazioni connesse alle aspettative (cioè appunto dall’effetto placebo).
In realtà molti studi hanno dimostrato che una percentuale superiore all’80% dei pazienti e dei medici è in grado di capire di appartenere al gruppo del farmaco attivo perché ne riconosce gli effetti collaterali (per esempio, bocca secca, sonnolenza, nausea...) (Rabkin et al., 1986).
I pazienti che sanno di star assumendo un farmaco e credono che ciò li farà star bene danno maggiori segni di miglioramento proprio a causa di queste aspettative. L’ipotesi che gli antidepressivi possano godere di un effetto placebo accresciuto in virtù dello svelamento del cieco trova conferma anche negli studi che utilizzano un «placebo attivo», cioè una sostanza priva di farmaco ma in grado di produrre gli stessi effetti collaterali, e che hanno dimostrato come, nella maggioranza dei casi, gli antidepressivi non siano in grado di produrre alcuna differenza significativa rispètto ai placebo attivi (Moncrieff et al., 2004; Moncrieff, 2007).
L’ipotesi dell’effetto placebo accresciuto potrebbe anche spiegare come mai molti farmaci che hanno in comune solo il fatto di produrre effetti collaterali osservabili (antipsicotici, psicostimolanti, barbiturici, sedativi, farmaci per la tiroide e perfino alcune erbe) siano in grado di alleviare i sintomi depressivi con la stessa efficacia degli antidepressivi.
ISTRUZIONI PER DIVENTARE DEPRESSI
ANTIDEPRESSIVI: CURANO O CREANO STATI CEREBRALI ANORMALI?
BIBLIOGRAFIA:
«Psicopillole. Per un uso etico e strategico dei farmaci», A. Caputo, R. Milanese, Ponte alle Grazie, 2017