DISPNONEUROSI: il respiro poco fluido

«Trattenere il respiro, significa perderlo»

Un atleta mi riferì in seduta che da qualche tempo era vittima di un fenomeno fastidioso: d’un tratto sentiva che il respiro «non scorreva più fluido come prima», non riusciva a «dargli il giro», gli sembrava che l’inspirazione «non arrivasse fino in fondo», e questo lo mandava in ansia. Il fenomeno si presentava sempre più spesso, soprattutto nelle ore precedenti alle gare, ma anche in altri momenti della giornata.

Il termine tecnico che designa tale disturbo è «dispnoneurosi» o «dispnea nevrotica». In realtà  si tratta di un fenomeno comunissimo, specialmente nelle persone più attente ai segnali del corpo, come sono gli sportivi.

In pratica, il meccanismo che lo sottende prende avvio dalla paura di non riuscire piu’ a respirare bene, fino in fondo, o in modo fluido come avveniva prima. Ma il sistema escogitato solitamente per combattere la sensazione di mancanza d’aria, e cioè fare lunghi  e ripetuti respiri profondi o cercare di dare il giro completo al respiro puo’ trasformarsi a poco a poco in un rituale sempre più piacevole fino a diventare nell’arco di qualche mese una compulsione a cui la persona non riesce più a rinunciare. Una volta instaurata la sindrome, il problema non è più il controllo della paura iniziale ma il controllo della compulsione al piacere.

Ora, la funzione biologica della respirazione è il sistema che assicura il perpetuarsi della vita ed è quindi indispensabile almeno quanto il battito cardiaco, senza i quali il mantenimento della vita è impossibile.

Proprio per questo, la natura ha dotato gli esseri viventi di meccanismi molto efficaci per assicurarne la funzionalità. I sistemi che regolano il comportamento respiratorio, infatti, sono estremamente potenti e godono di una rappresentazione molto forte a livello neuro­biologico.

Respirare, tuttavia, puo’ diventare assai meno semplice di quanto si po­trebbe pensare. 

L’atto di respirare è una delle funzioni dove è più evidente il contrasto tra aspet­ti consci e volontari, e aspetti automatici, istintivi e inconsci. E chi è intenzionato seriamente a costruirsi un bel problema a questo livello, dovrà semplicemente mettere in atto degli sforzi coscienti e volontari o con l’intento di favorire, ripristinare una certa fluidità di respiro oppure, al contrario, con l’intento di inibire reazioni fastidiose come la sensazione di mancanza d’aria.

Detto altrimenti, esistono programmi neurobiologici universali la cui attivazione comportamentale viene controllata da ope­razioni che si svolgono al di sotto della soglia della con­sapevolezza. E, se si vuol rendere dif­ficile l’accesso a tali programmi, basterà interferire, con la volontà, sull’estrinsecazione spontanea degli stessi, che verranno cosi’ espressi in maniera disfunzionale. Controllare razionalmente comportamenti e funzioni che di volontario e razionale hanno ben poco è il modo migliore per comprometterne il funzionamento.

A nessuno verrebbe in mente di controllare volontariamente la digestione o la contrazione del cuore, ma ad alcuni puo’ venire in mente di controllare in modo razionale il proprio respiro. Con l’esito paradossale di inibirlo se lo si vuole aumentare o di aumentarlo se lo si vuole ridurre. 

Un aspetto molto interessante, infatti, è che l’alterazione disfunzionale dei meccanismi automatici che stanno alla base della respirazione non si ha so­lo nel caso in cui si vuole provocare volontariamente qualcosa di spontaneo (es. un respiro piu’ fluido), ma anche nel caso opposto in cui si vuole inibire volontariamente una sensazione avvertita come spiacevole (es. una sensazione di fame d’aria, di fiato corto, di affanno, di non automaticità…).

Nel primo caso si cadrà nel para­dosso di «inibire cercando di aumentare»: ordinarsi un atto spontaneo, di fatto, significa già impedirsi di metterlo in atto. Voler essere spontanei è di per se stesso un limite alla spontaneità. E chi volontariamente si sforza di essere naturale, proprio per questo cessa immediatamente di esserlo!

Nel secondo, invece, ci si collocherà facilmente nel paradosso di «esasperare cercando di inibire». Il controllo volontario, infatti, esige una rappresentazione mentale (cognitiva ed emotiva) di ciò che si vuole control­lare. Questo significa che ogni volta una persona intenda inibire un comportamento, deve per forza pensarlo. Ora, la neurofisiologia dimostra che pensare un’azione significa attivare realmente i muscoli preposti a realizzarla (processo ideomotorio), se pure a un livello non percepibile normalmente. Si comprende allora come l’attivazione mentale di un programma inneschi l’attivazione quello che è solo, apparentemente, un pensiero. Gli sforzi che verranno fatti per evitare le sensazio­ni spiacevoli otterranno esattamente il risultato opposto!

PSICO SOLUZIONI

Essendo la respirazione un’attività necessaria e vitale, sarà sufficiente inibire le tentate soluzioni che lo rendono innaturale, per renderlo nuovamente spontaneo.

Nel primo caso si guiderà il paziente a evitare tutto ciò che, secondo la sua ottica, dovrebbe migliorare la fluidità della respirazione, lasciando cosi’ libero di emergere il sottostante program­ma neurobiologico.

Nel secondo caso si indurrà il paziente a perdere il controllo volontariamente a piccole dosi, il che gli mostrerà come queste «perdite di controllo pianificate» diventino, per ciò stesso, molto meno pervasive ed emotivamente disturbanti, fino al punto da poter essere vera­mente controllate in modo efficace.

Bisogna  infine ricordare che il paziente ossessivo, per definizione, tende a controllare e mettere in dubbio qualsiasi aspetto della propria vita. E, solitamente, mette in dubbio anche il meccanismo di funzionamento del problema e, quindi, quello della sua risoluzione. Puo’ rimanere in lui l’idea di fondo che ci sia qualcosa che non vada, qualcos’altro di molto piu’ profondo che non sia stato ben esaminato, idea confermata dal semplice fatto di averne il dubbio. Ma nell’ossessivo una delle cose che non va è credere che ci sia qualcosa che non vada! Credenza spesso alimentata da «esperti» a cui questi pazienti si rivolgono alla disperata ricerca del «meccanismo fisico inceppato».

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