La favola dello squilibrio chimico cerebrale

Agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso i ricercatori scoprirono che le sostanze psicoattive appena individuate, come la clorpromazina, l’imipramina e l’iproniazide, influenzano i livelli di alcuni neurotrasmettitori nel cervello.

Si ipo­tizzo’ quindi che alla base di disturbi mentali quali la schizo­frenia e la depressione ci fosse uno squilibrio biochimico di tali sostanze. Nacque così quella che è stata per lungo tempo la teoria predominante in ambito psichiatrico – quella dello squilibrio chimico – secondo la quale il cervello di chi soffre di certi disturbi presenterebbe un eccesso o una carenza di determi­nati neurotrasmettitori che andrebbero corretti per mezzo di farmaci in grado di ristabilirne il giusto equilibrio.

Il ragionamento logico adottato fu di tipo post hoc. Invece di sviluppare un farmaco per il trattamento di un’anormalità comprovata e di cui si conosce la causa, si è ipotizzato che esistesse un’anormalità in funzione del tipo di azione eserci­tata dal farmaco. Ma da un punto di vista metodologico non c’è alcuna ragione aprioristica per cui il meccanismo di azio­ne di un trattamento debba essere l’opposto della fisiopato­logia del disturbo (Krishnan, 2010).

Difatti, se applicassimo agli altri ambiti della medicina la stessa logica, si potrebbe sostenere che la causa di tutte le condizioni di dolore è una carenza di oppiacei, dal momento che i farmaci antidolorifici attivano i recettori degli oppiacei, o che il mal di testa e la febbre sono causati da bassi livelli di aspirina nel cervello, visto che l’aspirina può far passare il mal di testa e abbassare la febbre (Angeli, 201 la). Ma se anche venisse di­mostrata una correlazione tra i livelli di certi neurotrasmetti­tori e alcuni sintomi, ciò non implicherebbe necessariamente che uno sia la causa dell’altro, poiché entrambi potrebbero essere causati da un terzo meccanismo ancora ignoto.

Fu la serotonina ad essere individuata come la prin­cipale «colpevole» della depressione: i neuroni serotoninergici rilascerebbero quantità insufficienti di serotonina nello spazio intersinaptico e, di conseguenza, l’attivazione delle vie serotoninergiche sarebbe carente. Gli antidepressivi riporte­rebbero alla normalità i livelli di serotonina permettendo alle vie serotoninergiche di trasmettere i messaggi al giusto ritmo. In questo clima, a partire dal 1987, arrivarono sul mercato il Prozac e gli altri antidepressivi SSRI (Selective Serotonin Reuptake Inhibitor, ovvero inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina).

Nella letteratura scientifica la situazione era in realtà molto diversa.

Già a partire dagli anni Sessanta i ricercatori avevano provato a verificare l’ipotesi dello squilibrio chimico, cercan­do di misurare se davvero i pazienti depressi avessero bassi livelli di serotonina e/o noradrenalina nel cervello e quelli schizofrenici livelli troppo alti di dopamina. Poiché non era possibile una misurazione diretta dei livelli di questi neurotrasmettitori nel cervello dei pazienti, i ricercatori scopriro­no come ottenerne una misurazione indiretta analizzando i livelli dei loro metaboliti nel liquido cerebrospinale.

Se la teoria dello squilibrio biochimico era valida, ci si aspettava di trovare livelli superiori al normale del metabolita della dopamina nel liquido cerebrospinale dei pazienti schizofrenici e inferiori al normale del metabolita della serotonina in quel­lo dei depressi. Ma si scoprì che que­sto non era vero, né per i pazienti depressi (Papeschi, 1971; Bowers, 1974) né per quelli psicotici (Bowers, 1974b; Post, 1975), non c’era cioè alcuna differenza significativa nei livelli dei metaboliti di soggetti malati rispetto a quelli normali. Psi­cotici, depressi e «sani» non presentavano alcuna differenza rilevante nelle quantità dei vari neurotrasmettitori presenti nel cervello.

Un altro modo utilizzato dai ricercatori per verificare l’i­potesi monoaminergica della depressione consisteva nell’indurre una riduzione di questi neurotrasmettitori nel cervel­lo di pazienti sani e vedere se ciò provocava una reazione depressiva. Un’équipe dell’Università di Amsterdam nel 2007 ha effettuato la più grande meta-analisi mai condotta sugli studi di questo tipo (90 studi) e ha verificato che l’abbassamento sperimentale di serotonina e noradrenalina in soggetti che non erano mai stati depressi non aveva alcun impatto sull’umore, né induceva uno stato depressivo (Ruhé et al., 2007).

Era quindi impossibile che l’alterazione di que­sti neurotrasmettitori fosse di per sé in grado di spiegare lo sviluppo di uno stato depressivo.

Un’ulteriore smentita dell’ipotesi biochimica dell’eziologia della depressione è arrivata da tutti quegli studi particolarmente interessanti che riguardavano le sostanze SSRE (poten­ziatori selettivi della ricaptazione della serotonina) che, in­crementando la ricaptazione della serotonina a livello delle sinapsi, ne diminuiscono la quantità invece di aumentarla (Preskorn, 2004; Sarek, 2006). Queste sostanze hanno di­mostrato di essere significativamente più efficaci del place­bo e praticamente identiche agli SSRI e ai triclici nel ridurre la depressione (Wagstaff et al., 2001).

Se la depressione può essere influenzata allo stesso modo da farmaci che aumentano la serotonina e da farmaci che la riducono, e da altri che non hanno alcun impatto su di essa, e se l’ abbassamento dei livelli di serotonina in pazienti sani non è in grado di indurre una crisi depressiva, cade l’ipotesi che la serotonina possa essere la diretta responsabile del di­sturbo depressivo.

Nonostante la teoria dello squilibrio chimico nella sua versione originale sia ormai considerata una sorta di «mito», è rimasta decisamente popolare nell’opinione pubblica e viene ancora utilizzata da molti psichiatri e neurologi frequentatori compulsivi di salotti televisivi per fornire una spiegazione semplice e comprensibile ai propri pazienti. Tuttora, infatti, la maggior parte dei pazienti ritiene che il suo disturbo sia dovuto a uno squilibrio nel cervello che gli psichiatri possono riequilibrare con i farmaci, proprio come l’endocrinologo fa con l’insulina per i diabetici, come se fosse un dato ormai condiviso e scientificamente confermato.

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BIBLIOGRAFIA:

«Psicopillole. Per un uso etico e strategico dei farmaci», A. Caputo, R. Milanese, Ponte alle Grazie, 2017


Psicopillole