Il modello centrato sulla malattia ipotizza che gli psicofarmaci siano trattamenti «specifici» in grado di ripristinare il normale funzionamento cerebrale che risulta alterato in maniera differente nei diversi disturbi mentali. Ma la teoria dello squilibrio chimico non è riuscita a dimostrare l’esistenza di anormalità nel cervello di persone con disturbi mentali, né il presunto fondamento «curativo» degli psicofarmaci. Sono trattamenti puramente sintomatici, la cui modalità di azione va indagata in altre direzioni.
Fra le varie teorie relative ai possibili meccanismi di azione degli psicofarmaci, si sta diffondendo sempre più quello che è stato definito il «modello centrato sul farmaco». Pioniere in proposito è l’articolo di Joanna Moncrieff e David Cohen (2006) dal provocatorio titolo Do Antidepressants Cure or Create Abnormal Brain States? («Gli antidepressivi curano o creano stati cerebrali anormali?»). I teorici di questo modello sostengono che gli psicofarmaci invece di ripristinare una normalità fisiologica creerebbero essi stessi uno stato cerebrale «anormale». E sarebbe proprio lo stato alterato di coscienza il responsabile degli effetti «terapeutici» di queste sostanze. L’alterazione provocata dai farmaci, infatti, permetterebbe di offuscare o mitigare la condizione di malessere sperimentata dalla persona. E quando la sua sofferenza emotiva e psichica è acuta, come nel caso delle psicosi e delle depressioni severe, un simile stato alterato ha maggiori probabilità di essere vissuto come preferibile rispetto alla condizione originaria.
La teoria è ben esemplificato dall’effetto dell’alcol su chi soffre di ansia sociale. L’alcol, infatti, diminuendo le inibizioni e l’ansia può aiutare queste persone a relazionarsi con gli altri in maniera più efficace e rilassata; ma nessuno si sognerebbe di dire che l’alcol è un farmaco e che funziona «correggendo uno squilibrio biochimico sottostante». L’alcol funziona perché sostituisce uno stato ansioso della persona uno stato cerebrale alterato, che non è però un «normale» stato emotivo di assenza di ansia.
La cosiddetta «risposta positiva al farmaco», quindi, non consisterebbe in stati emotivi ed esperienze «normalizzati» grazie, a un farmaco curativo, bensì in stati alterati di coscienza che variano a seconda delle proprietà farmacologiche del farmaco in questione. Per dirlo con le parole di Cohen e Jacobs (2007), «i farmaci psichiatrici sono droghe psicoattive che per i loro effetti neurofisiologici alterano la vita mentale ed emozionale e il comportamento per tutta la durata del trattamento».
Secondo il modello centrato sul farmaco, quindi, gli psicofarmaci non produrrebbero effetti specifici su specifici disturbi, ma risposte simili in persone con disturbi differenti, agendo su funzioni cerebrali molto generali che hanno il potere di influenzare simultaneamente vari sistemi sia emotivi sia comportamentali. Ciò spiegherebbe come mai categorie di psicofarmaci molto differenti agiscano trasversalmente su un’ampia varietà di disturbi, senza mostrare alcun tipo di «specificità» come ipotizzato invece nel modello centrato sulla malattia.
Gli «antidepressivi», per esempio, provengono da classi chimiche diverse e possono differire notevolmente gli uni dagli altri negli effetti che producono. Da qui la proposta di alcuni autori di riclassificare gli psicofarmaci in base ai loro effetti globali caratteristici e alla loro classe chimica, piuttosto che agli ipotetici effetti sulle singole psicopatologie, e a partire dalla distinzione più elementare tra farmaci con proprietà sedative e farmaci con proprietà stimolanti (Moncrieff, 2009).
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BIBLIOGRAFIA:
«Psicopillole. Per un uso etico e strategico dei farmaci», A. Caputo, R. Milanese, Ponte alle Grazie, 2017