La Psicoterapia funziona davvero?

Un aspetto, a dir poco paradossale, è quello di considerare, in ambiente sanitario, la psicoterapia solo come un elemento accessorio al farmaco, un elemento di contorno che ha lo scopo di supportare i familiari del paziente depresso o aiutare il paziente stesso a “digerire” gli effetti collaterali dei farmaci, considerati imprescindibili. E lo sono, in alcuni selezionatissimi casi, ad esempio di soggetti poco responsivi alla psicoterapia, dove possono contribuire a migliorare la compliance alla psicoterapia stessa. 

Il problema è che, nella realtà, avviene esattamente il contrario: si utilizza la psicoterapia per migliorare la compliance ai farmaci!

Con il superamento della netta divisione tra mente e cer­vello e la scoperta della neuroplasticità cerebrale, grazie alla quale il nostro cervello si modifica continuamente in fun­zione delle nostre esperienze di vita, la capacità di indurre” modificazioni.a livello cerebrale non è più solo appannaggio degli psicofarmaci.

Difatti è ormai ampiamente dimostrato che anche la psicoterapia, in quanto processo interpersonale che struttura nuovi apprendimenti, è in grado di produrre cambiamenti a livello delle sinapsi cerebrali e di modulare l’espressione dei geni (Kandel, 1998).

Sono ormai numerosi gli studi di neuroimaging che hanno dimostrato come il cervello si riorganizzi plasticamente nel corso del trattamento psicoterapeutico. È stato ripetutamente dimostrato nei casi di depres­sione (Brody et al., 2001; Martin et al., 2001; Goldapple et al., 2004), fobia sociale (Furmark et al,, 2002), fobie specifiche (Paquette et al., 2003), disturbo ossessivo compulsivo (Baxter et al.,1992; Schwartz, 1998) e disturbo post-trauma­tico da stress (Kandel et al., 2000).

I cambiamenti che avvengono a livello «mentale» all’in­temo di un contesto psicoterapeutico, quindi, sono in grado di «ricablare» il cervello; in altri termini, «se cambi la mente cambi il cervello» (Paquette et al., 2003).

Il modo in cui la psicoterapia modifica le funzioni e le strutture del cervello sembra differire sia da quello degli psicofarmaci sia da quello dell’effetto placebo, che paiono invece produrre esiti analoghi a livello cerebrale (Mayberg et al., 2002; Furmark et al., 2002; Goldapple et al., 2004).

L’effetto prodotto dagli interventi di psicoterapia non è quindi aspecifico o legato all’effetto placebo, come sostenu­to da molti, bensì determinato da aspetti peculiari e specifici del trattamento psicoterapeutico.

è fondamentale che la terapia guidi la persona a vivere esperienze reiterate di cambiamento che consolidino definitivamente anche le modificazioni neuroplastiche a livello di sinapsi cerebrali, sfruttando una delle leggi principali della neuroplasticità, ossia quella di Hebb. Secondo questa legge, i neuroni che si attivano insieme si legano fra loro: un’esperienza ripetuta provoca cambiamenti strutturali nei neuroni che elaborano quell’esperienza, consolidando le connessioni sinaptiche reciproche. Via via che questi circuiti vengono esercitati diventano sempre più efficienti e automatici, dando vita a una vera e propria «abitudine» neuropsicologica. E, una volta acquisita, essa offre una forte resistenza ai tentativi di cambiarla e tende a estendersi sempre più nella mappa cere­brale impedendo che quello spazio venga occupato da altre abitudini. Questo spiega la grande difficoltà che abbiamo ad abbandonare i comportamenti disfunzionali e, sintoma­tici tipici di certi disturbi così come le nostre «cattive abi­tudini». Ma è vero anche il contrario; quando smettiamo di compiere un’attività per un lungo periodo, le connessioni si indeboliscono e col tempo molte vanno perdute (principio use it or lose it «usalo o lo perderai») (Doidge, 2015).

È così che le psicoterapie che si avvalgono anche di «com­piti» da eseguire a casa sono in grado di accelerare i cambiamenti neuroplastici del cervello, poiché permettono di aggirare le intrinseche resistenze al cambiamento e di eser­citare nuovi modelli comportamentali, percettivi e cognitivi. Grazie alle prescrizioni di comportamento, il terapeuta può strutturare esperienze concrete («eventi casuali pianificati») che permettano di depotenziare fino ad annullare le connes­sioni cerebrali disfunzionali (per esempio, i comportamenti rituali dei pazienti ossessivo-compulsivi) e, parallelamente, esercitare nuovi circuiti neurali funzionali.

I principi tera­peutici della plasticità suggeriscono anche che i «compiti» più efficaci sono quelli progressivi, in stretta relazione con la vita quotidiana, e che le terapie più efficaci sono quelle concentrate in un breve periodo di tempo

Ma qual è la differenza tra «cambiare il cervello» tramite gli psicofarmaci o farlo con una psicoterapia?

Secondo LeDoux (2002), i farmaci sono in grado di intervenire sui sin­tomi di un disturbo o di predisporre il terreno perché questo possa essere superato, ma la «guarigione» definitiva neces­sita sempre di cambiamenti a livello esperienziale. Cambia­menti che inducano la formazione di nuovi apprendimenti e nuove memorie a livello percettivo, emotivo, comportamen­tale e cognitivo quali sono quelli prodotti dagli interventi di psicoterapia.

Come argomentato dallo stesso LeDoux, «i farmaci possono produrre cambiamenti adattivi nei circuiti cerebrali o porli in uno stato in cui adattamento e appren­dimento risultino facilitati. Ma non c’è alcuna garanzia che, abbandonato a se stesso, il cervello apprenda le cose giuste» (2002, tr. it, p. 418). Nella misura in cui gli psicofarmaci possono agire solo sui neurotrasmettitori e sui neuromodu­latori, quindi, è evidente che il loro ruolo non può che essere sintomatico.

La totale risoluzione di un disturbo, intesa nei termini di un cambiamento strutturale e duraturo di ordine sia sinaptico sia psicologico, è possibile solo grazie a espe­rienze nuove e ripetute, in grado di modificare in maniera persistente la rete neurale, ovvero il nostro Sé.

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