«Fedeli al duro accordo, non ci cerchiamo più. Così i bambini giocano a non ridere per primi guardandosi negli occhi e, alcuni, sono così bravi che diventano tristi per la vita intera»
Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke
«La vita è giocare a un gioco. E la regola principale del gioco è giocare al gioco facendo finta di non giocare a un gioco. I problemi nascono quando un evento, una persona, una situazione, un pensiero, infrange la regola principale del gioco e ci svela d’improvviso il nostro gioco, ovvero che stiamo giocando al gioco di non giocare a un gioco».
Spesso arrivano a consulto, e non cosi’ di rado, pazienti che “portano” letteralmente sulle spalle da anni, e talora da decenni, pesanti etichette di depressione, costruite a partire dai sintomi lamentati. I sintomi come tristezza, astenia, insonnia, perdita del piacere, per citarne solo alcuni, vengono considerati dalla maggioranza dei modelli psichiatrici e psicologici tradizionali, espressione di un’entità morbosa sottostante chiamata DEPRESSIONE. Anni di psicoterapie, piuttosto che di psicofarmaci, sono risultati senza effetto apprezzabile o con effetto comunque non risolutivo.
Questo accade perchè, nella maggior parte dei casi, la depressione NON È UNA MALATTIA ma, come visto nella metafora introduttiva, qualcosa di ben peggio: è la perdita di un’illusione, intesa come un intricato insieme di proiezioni a proposito di se stessi, degli altri, della vita o dell’universo, che viene meno. Ad esempio:
«Pensavo di essere…invece non lo sono piu’ o non lo sono mai stato»;
«Pensavo che gli altri fossero….e invece non lo sono»;
«Pensavo che la vita fosse…e invece…»
A tal proposito, Taylor e Brown (1988) e Taylor (1991) hanno dimostrato che il pensiero e la percezione negli esseri umani “normali” non sono contrassegnati dalla esattezza oggettiva, ma da sistematiche illusioni favorevoli intorno a se stessi, al mondo e al futuro, che rientrano, in genere, in 3 categorie principali:
- Autovalorizzazione cioè percezione di sé, del proprio passato e delle proprie qualità stabili in termini piu’ positivi di quanto siano in realtà;
- Fiducia eccessiva nelle proprie capacità di controllo personale cioè l’idea di poter far andare quasi sempre le cose a buon fine;
- Ottimismo irrealistico, cioè la convinzione che il futuro abbia in serbo uno spiegamento mirabile di opportunità favorevoli e una singolare assenza di avversità. Come dire «L’uomo è l’unico animale capace di essere ottimista. E il perché non si sa…».
In parole povere, quando pensiamo a noi stessi, agli altri e al mondo, ci proiettiamo significati illusori e poi compiamo l’errore di credere a cio’ che abbiamo creato e quando la vita svela l’illusorietà delle nostre premesse, la delusione è inevitabile.
Quindi, contrariamente a quello che si pensa, la depressione si profila paradossalmente come un barlume di lucidità, uno sguardo lucido e spietato sulla realtà piuttosto che una visione distorta del mondo e, chi ne soffre, non è un malato ma una persona che non riesce piu’ a trattenere l’illusione che normalmente tiene alla larga dalla coscienza questa dolorosa verità.
Lo spiega benissmo S. Freud: «Esistono due modi per essere felici in questa vita, uno è di fare l’idiota e l’altro è di esserlo».
Ora, premesso che una certa quota d’illusione è fondamentale, in quanto ci permette di andare avanti nonostante un mondo ostile e imprevedibile (pensiamo ad esempio all’arbitrarietà della sorte, alla quasi certezza che delle catastrofi si abbatteranno su di noi quando meno ce l’aspettiamo, all’ineluttabilità della morte, a una natura che dispensa più dolore che piacere), il problema nasce quando l’illusione iniziale (che è funzionale e adattativa) si irrigidisce talmente tanto da diventare fragile (disfunzionale e disadattativa) sino a frantumarsi.
Si potrebbe dire che quanto piu’ onnipotenti sono le aspettative e le idealizzazioni riguardo a se stessi, agli altri e alla vita in generale, tanto piu’ grande sarà la delusione e la depressione conseguente, una volta tradite.
Una svalutazione tragica è sempre frutto di una precedente idealizzazione e il pessimista altro non è che un ottimista mancato.
Cosi’ il depresso non è un deluso che non riesce ad illudersi ma esattamente il contrario: un illuso-deluso!
Con questo non si vuole assolutamente remare contro l’ottimismo o legittimare il pessimismo. Si vuole semplicemente far notare come la cosa che piu’ di molte altre ci protegge dalla delusione sia proprio la disillusione. Poiché – come afferma Francis Lucille – «Non aspettarsi nulla è una grande arte, quando non viviamo piu’ nell’aspettativa, allora viviamo in una nuova dimensione: siamo liberi!»
La nozione di Depressione come «malattia» è stata venduta al pubblico per 3 motivi principali:
- Tentativo di destigmatizzare la depressione: la depressione era un tempo considerata prova di debolezza caratteriale e le persone che ne soffrivano erano per questo biasimate; la scelta di curarla chiamandola “malattia” ha contribuito a ridefinire la depressione in termini biologici e ad accantonare l’idea della debolezza caratteriale;
- Filosofia dell’irresponsabilità sviluppata dalla nostra cultura e molti problemi sono stati per questo etichettati come malattie. «Possiamo seminare ‘disturbi’ raccogliendo irresponsabilità, e cosi’, non dipende da lui, da noi o da qualsiasi cosa o metodo sbagliato, si tratta di disturbo!» E. R. Cestari). Un’idea tanto comoda quanto inesatta perchè l’uomo è condannato ad essere libero e non puo’ non essere responsabile anche quando non lo è: infatti, anche se non si è responsabili di quello che si è, si è responsabili di quello che si fa con quello che si è!
- Sviluppo di farmaci piu’ efficaci e con minor effetti collaterali: alimenta l’idea, non corretta, che la depressione sia un problema esclusivamente biologico. Statisticamente il numero di depressi ha avuto un’impennata proprio quando le industrie farmaceutiche hanno introdotto gli SSRI. Si tratta di un vero e proprio paradosso per cui nascono prima i farmaci per curare e poi la presunta malattia da curare. In breve tempo si è passati dall’idea «forse non sono abbastanza felice» a quella «sono depresso perchè esistono dei farmaci in grado di sollevarmi l’umore». In altre parole, il fatto stesso che esista la terapia della depressione fa aumentare il numero dei casi di depressione diagnosticati, perché, se si accetta il principio secondo cui chi è preso dal vortice della tristezza è depresso e quindi un malato da curare, automaticamente rientrano nel concetto di depressione tutti quei casi nei quali la somministrazione di un farmaco serotoninergico ha come risultato l’elevazione del tono dell’umore.
Se poi, come è successo, si scopre che lo stesso farmaco fa diminuire anche i sintomi di condizioni diverse dalla tristezza, quali ad esempio i pensieri ossessivi o gli attacchi di panico, l’equazione è semplice: si afferma che tali disturbi – fino a quel momento considerati come appartenenti allo spettro ansioso – sono in realtà forme varianti di depressione, e quindi ‘curabili’ con antidepressivi!
In pratica, una sostanza chimica che dovrebbe curare una malattia, ‘crea’ la malattia che dovrebbe curare e ne dimostra l’esistenza ‘curando’ i sintomi tipici di altri disturbi.
I FARMACI ANTIDEPRESSIVI: IL CROLLO DI UN MITO
BIBLIOGRAFIA:
Michael D. Yapko (2002), Rompere gli schemi della depressione. La terapia in tempi brevi applicata alla depressione, Traduzione di Bannella F., Milano: Ponte alle Grazie.